Potremmo dire che Paolo Sorrentino ci piace per almeno 57 ragioni. Ma il tempo è tiranno, lo spazio è poco e voi non avreste la pazienza di leggerle tutte. Ne diremo qualcuna, alla rinfusa, senza la pretesa noiosa di essere esaustivi, ma con l’unico intento di parlare di uno dei maggiori esponenti del cinema italiano contemporaneo.
In primo luogo, ci piace Sorrentino perché demolisce con dolcezza ogni possibile rassicurante prototipo d’italianità. Perché l’arte, oggi, troppo spesso fa leva su una strana forma di complicità che si basa sull’identificazione del fruitore con la materia dell’opera. Non perturba il lettore, lo spettatore, l’osservatore, ma lo tranquillizza, gli sussurra all’orecchio: “eccomi, sono qui, era proprio questo che ti aspettavi, vero? Sei contento?”. E nel rispetto di questo accordo previo, ogni nuovo prodotto artistico viene serenamente archiviato nella smemorata memoria collettiva. I film di Sorrentino, invece, perturbano, ci spostano di qualche chilometro dalla poltrona dove pensavamo di esserci seduti. E restano ben impressi, nella retina e nella memoria.
Prendiamo Le conseguenze dell’amore (2004). È un film che parla di Mafia, eppure mancano i rumori assordanti, la volgarità confusa, il sudore e gli eccessi verbali a cui il cinema di Mafia ricorre tanto spesso. Le prime scene del film segnano chiaramente il passo dell’opera. Silenzio. Interno di un hotel elegante. Una bella barista dai capelli scuri agita distrattamente uno shaker. Un uomo pelato con il papillon. La voce off del narratore, nella bolla di silenzio della sala dall’albergo, da inizio alle danze. Il protagonista, Titta Di Girolamo, si presenta. L’esatta sequenza delle sue parole, il tono misurato e lievemente dolente, lasciano intuire l’abisso d’inquietudine che si nasconde dietro la calma ovattata della scena, intercalata al rumore secco degli zoccoli dei cavalli che, oltre le sbarre di vetro della finestra-cella dove vive Titta, trainano un arcaico carro funebre.
Dopo questa potente visione onirica, siamo pronti a lasciarci sbigottire da quell’uomo privo di immaginazione che abbiamo appena incontrato, dall’assenza di identità dei luoghi che abita (l’hotel in Svizzera, un non-luogo in un non-paese, confederazione neutrale asettica). Il mistero della routine del suo esilio si insinua sotto la pelle dello spettatore, lo imprigiona al caldo degli interni di questa sorta di acquario che è l’hotel dove vive lo strano personaggio che ci fa da guida. Titta Di Girolamo, uomo impeccabile che non ha nulla di frivolo – a parte il nome – è un corpo plasmato dalla solitudine, interpretato da uno straordinario Tony Servillo, che si muove meccanicamente nel noto scenario dei suoi ultimi otto anni di vita. Tuttavia, commette un errore che provoca la prima grande incrinatura e porta a un susseguirsi di conseguenze tragiche. E lo spettatore lo osserva, senza fiatare, guidato dalla fotografia geometrica e fredda degli esterni, dai personaggi-figure che si compongono sulla scena, dai dialoghi esatti che mettono in atto.
Il corpo posticcio di Titta Di Girolamo/Tony Servillo – interprete di tutti i primi quattro lungometraggi di Sorrentino -, la fissità della sua maschera di solitudine oltre il fumo di sigaretta ci serve da ponte per parlare di un’altra ragione della nostra ammirazione per Sorrentino, ovvero Il divo (2008). Nel fare un film su Giulio Andreotti, il rischio di cadere nella trappola della rassicurazione era molto alto. Protagonista di tutta l’era repubblicana italiana, dalla sua fondazione ai giorni d’oggi, la figura minuta e torta del senatore a vita porta con sé una serie infinita di significati storici, politici, filosofici, privati e pubblici. Burattinaio silenzioso, cristiano devoto dalle mani sporche di sangue, Andreotti “è” la politica italiana del secondo Novecento. Tuttavia, grazie a Tony Servillo, Sorrentino mette sulla scena l’immagine di Andreotti e non il tentativo, a priori fallito, di simulare l’uomo.
La prima immagine del Divo Giulio, il suo volto trafitto dagli aghi dell’agopuntura contro l’emicrania, chiariscono subito che siamo davanti all’immagine di Andreotti e non a un attore che cerca di imitarlo, in uno sforzo mimetico che non avrebbe alcun senso. A Sorrentino non interessa raccontare la biografia di Giulio Andreotti, ma le sue immagini possibili. Un volto solo, senza corpo, trafitto dagli aghi e dal dolore che lo perseguita per tutto il film (e per tutta la vita) racconta con freddezza la propria capacità di assoluta sopravvivenza alla vita stessa. Le punture sembrano innescare una catena di ricordi e parte la rapida sequenza che mette in scena alcuni fra i più atroci omicidi politici commessi in Italia, costruita attraverso una serie di simboli che attivano la memoria dello spettatore: la macchina da scrivere e la copia di OP che costarono la vita al giornalista Mino Pecorelli, l’A112 Bianca dove trovò la morte il Gen. Carlo Alberto dalla Chiesa, il cadavere impiccato sulle acque del Tamigi del finanziere Roberto Calvi, il termos e il caffè avvelenato del banchiere Michele Sindona e l’R4 rossa col bagagliaio aperto contente il corpo dell’On. Aldo Moro. Ecco la spettacolare vita di Giulio Andreotti, scandita dall’elettronica pulsante dei Cassius. Era da tempo che nessuno raccontava l’Italia così. Dobbiamo risalire a due grandi figure della letteratura e del cinema italiano, a quel binomio straordinario formato dalla penna di Leonardo Sciascia e dalla regia di Elio Petri.
Tony Servillo, che ha reso possibile questa stupefacente figura di Andreotti, ha più volte ricordato di essersi ispirato al personaggio interpretato da Gian Maria Volonté in Todo modo, opera alla quale Il divo ci sembra profondamente legato. Senza dubbio per le situazioni surreali, per tutte quelle volontarie omissioni che fanno subito capire che siamo davanti a una possibile immagine della Democrazia Cristiana (DC) – partito leader in Italia dal 1945 agli anni Novanta, epoca in cui si ambienta il film di Sorrentino – ma soprattutto per la rappresentazione di quella particolare tipologia umana che ha dominato la politica italiana, immersa in un’atmosfera sospesa fra “il curiale e il vedovile”, come scrisse sapientemente il giornalista Giorgio Manganelli, inviato del Corriere della Sera al congresso generale della DC andreottiana. Sorrentino va oltre Sciascia e Petri, rende universale una figura concreta, dà volontariamente riferimenti precisi, glossari e date che subito dopo scardina dalla loro funzione di documento mimetico del reale. Ed è proprio questo scarto, questa mimesi mancata che, per fortuna, destabilizza. E non vediamo l’ora di continuare a farci turbare dal cinema di Sorrentino.
Clelia Bettini
[Dal catalogo di 8 ½ Festa do Cinema Italiano]
Venerdì 13 al Cinema Medeia Monumental verrà proiettato This Must Be The Place
Be the first to comment on "L’inquietudine di Sorrentino – 8 ½ Festa do Cinema Italiano"